Quaranta giorni. Chi l'avrebbe mai detto? Ripenso alla sera di quel nove marzo, quando Conte pronunciò il suo cavallo di battaglia “Rimaniamo distanti oggi per abbracciarci più forte domani”.
Era così potente quel messaggio che ci abbiamo creduto tutti profondamente e l'abbiamo fatto nostro accettando di far passare questo tempo in isolamento con la convinzione che sarebbe servito, che il nostro sacrificio, per quanto amaro, sarebbe stato utile alla risoluzione del problema.
Ci siamo sentiti, in questo mese e mezzo, protagonisti di un'azione comune, una battaglia statica ma efficace a combattere un nemico sconosciuto e terrificante.
In parte è andata così. Cambiare le nostre abitudini ha evitato che il virus si spandesse in tutto il Paese come invece, purtroppo, ha fatto in Lombardia. I risultati ci sono e credo possiamo esserne fieri.
Ora, però, è inevitabile tirare le somme. L'impazienza cresce, i dubbi sul futuro anche.
Ci chiediamo se questo “oggi” in cui rimanere distanti abbia una scadenza o sia piuttosto un presente diluito e senza contorni definiti. E soprattutto guardiamo a quel “domani” senza avere un'idea reale di quando potremmo davvero abbracciarci così forte.
La paura ora non è quasi più quella di contrarre il virus, ma di convivere con un disagio diffuso, che non ci piace e non ci piacerà mai. Ci stiamo abituando, nostro malgrado, a quel futuro distopico che si vede nei film di fantascienza, quelli con le atmosfere cupe dove, non si capisce perchè, non sorge mai il sole e la gente vive nell'ombra. Che poi, mi chiedo, ma è possibile che non esista un film in cui il futuro sia migliore del presente? Cioè, non è che ce la siamo un po' tirata da soli? Chissà.
Comunque, vabbè, l'analisi seria è più o meno tutta qui. Ho saltato solo le considerazioni sui tempi e l'utilità del vaccino e sulla durata dei fondi per il sostentamento di chi non lavorerà più per i prossimi mesi. Ci sarebbe inoltre da commentare quei progetti futuristici di ristoranti e stabilimenti con le barriere di plexiglass, ma in realtà il mio cervello non ha ancora processato questa cosa. Semplicemente non mi sembra possibile.
Per il resto, tra alti e bassi, questi quaranta fottutissimi giorni sono andati alla grande. Ma soprattutto sono andati e questo mi fa sentire più leggera. Non dico che me ne farei altri quaranta, quello no. Però in qualche modo sento di voler bene a questi “forty”, credo di averli sfruttati al massimo e va bene così.
Anche se, tralasciando tutto quello che non si poteva fare, tra le cose che erano concesse, una mi è davvero mancata. Forse non l'ho mai detto, ma non aver mai mangiato pizza in questo periodo è sempre stato un punto dolente a cui non potevo proprio più sottostare.
E quindi, per festeggiare la cifra tonda di questo primo ciclo di quarantena, oggi sono andata al forno a prendere la pasta già lievitata, e stasera finalmente anche in questa casa si sfornerà della pizza calda!
Stasera, dopo aver addentato la mia margherita e brindato con una buona birra, chiuderò gli occhi e immaginerò di stare in una pizzeria con una cifra di persone, tutte quelle a me care, come in una scena mai scritta di un film sul futuro, però stavolta un futuro gioioso, pieno di luce e senza plexiglass.
In foto la pizza. Quella che ho mangiato a Napoli l'anno scorso.
Se qualcuno ha letto il post pensando che l'avessi fatta io lo ringrazio per la fiducia.
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