L'altro giorno sono uscita.
Avevo finito il pane e non c'ho mai neanche pensato a prendere la farina e il lievito, tanto non sono capace a farlo in casa.
Cioè, magari seguendo una ricetta, mettendomi d'impegno, qualcosa potrebbe uscire fuori, ma la verità è che evito con tutta me stessa ogni rischio di delusione. Per esempio, non potrei sopportare di aprire il forno dopo mezza giornata con le mani in pasta e rendermi conto che o è bruciato o non ha la crosta come si deve o dentro è rimasto crudo. In quest'ultimo caso poi la mollica sarebbe immangiabile, ma siccome stiamo in quarantena me la mangerei lo stesso e mi ritroverei a non digerirla e in preda al mal di stomaco inizierei a pensare a qualcosa di grave e mi salirebbe il panico. Insomma, non è il periodo per gli esperimenti in cucina, ultimamente basta un niente che ti sale l'angoscia e fare la scarpetta, dovendo rincorrere le molliche di pane per tutto il piatto, perchè se lo faccio in casa si sbriciolerà come un oro saiwa, già lo so, ecco non è quello di cui ho bisogno.
Quindi, quando finisce il pane io vado al forno che sta a 200 metri da casa e me lo ricompro.
E così, l'altro giorno mi sono avviata. Guanti di lattice, foulard di cotone messo con doppio giro intorno alla faccia e poi legato dietro la nuca a mo di rapinatore inesperto che rischia di soffocare da un momento all'altro. Occhiali da sole che, siccome non poggiavano direttamente sul naso ma sul foulard, scivolavano in continuazione.
Cappuccio della giacca tirato su un po' per coprire i capelli, rigorosamente legati, un po' perchè faceva un freddo che manco a gennaio.
Nei primi cento metri ho affinato la tecnica di tirare su gli occhiali dando con la testa un colpetto secco all'indietro ogni volta che stavano per cadermi. La cosa sembrava funzionare, anche se al ritorno avevo la cervicale infiammata.
Nei secondi cento metri ho iniziato a incontrare esseri viventi.
Il primo a incrociare il mio cammino nel senso opposto è stato un signore sulla sessantina con una busta di arance in mano e la mascherina scesa sul collo, tipica di chi ha superato il peggio e sta per rientrare a casa.
Qualche giorno fa avrei pensato “Che incivile, esce solo per due arance”.
Ma io stavo andando a prendere solo il pane, in fondo, quindi provai a mostrargli la mia comprensione e solidarietà con uno sguardo complice e un sorriso benevolo. Lui però non ricambiava. Lo spazio tra noi diminuiva e io insistevo con lo sguardo sempre più complice e il sorriso sempre più benevolo, ma lui era sempre più serio.
In quei pochi secondi pensai: “Oddio, è finita. La tristezza ha preso il sopravvento, siamo già chiusi in noi stessi pronti a vivere senza contatti sociali, con diffidenza con distacco e senza più la voglia di interagire. Oddio ma che mondo è diventato? Non uscivo da due settimane e mi ricordo benissimo che quando stavo in fila in farmacia l'altra volta io e una signora che stava davanti a me siamo diventate amiche del cuore pur mantenendo due metri di distanza! Perchè ora no? Perchè è già cambiato tutto?!”
E' stato solo all'ultimo istante che ho capito per quale motivo il signore con le arance non rispondeva ai miei tentativi di interazione da distanziamento sociale. Lui non poteva vedermi!
E così, quando stavamo praticamente alla stessa altezza, un attimo prima che le nostre strade si incrociassero, sono riuscita a fare l'unica cosa sensata da fare. Ho alzato un braccio con la mano aperta e ho detto con il tono di voce più allegro che potevo: “Ciao!”
Alla fine il mio amico sessantenne ha risposto sfoderando un grandissimo sorriso liberatorio, tipico di chi vorrebbe dare il primo saluto, ma evidentemente qualcosa lo frena.
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In foto quel qualcosa che lo frena.
#vinciamonoi #restiamouniti #andràtuttobene#iorestoacasa
Quell'hashtag lì stride sempre di più, lo so, ma non riesco a toglierlo.